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sabato 27 novembre 2010

(1963) rubrica - ITALIA DOMANDA

EPOCA



Normalmente le “parolacce” nei film vengono giustificate in nome della libertà dell’arte. L’artista, si dice, è libero di scegliersi qualsiasi argomento, ed è libero di rappresentare la realtà, anche nella sua più ardita nudità. Sottoscrivo questa teoria, ma penso che essa non possa applicarsi al caso in esame.
Non sono convinto che le “parolacce” che infarciscono certi nostri film sieno necessarie per amre del vero. Le “parolacce” non costituiscono un repertorio abituale della realtà quotidiana, nemmeno nelle classi popolari. I contadini, si sa, sono piuttosto taciturni, parlano poco, e quando parlano sono straordinariamente verecondi e timidi. In fondo il turpiloquio è una forma di eloquenza ed esige scilinguagnolo sciolto. Non usano parolacce nemmeno i popolani delle città, salvo qualche “moccolo” o invettiva in vernacolo, nei momenti d’ira… E, infine, il linguaggio scurrile non è proprio nemmeno dei giovinastri di malavita, ai quali è rivolta in maniera particolare l’attenzione dei cineasti. I ragazzi di vita usano parlare spesso in gergo, come i carcerati. […] Ma il gergo non è turpiloquio, è piuttosto un linguaggio tecnico-professionale. Insomma, io nella vita reale non ho mai sentito parlare nessuno come parlano certi eroi nei film. […]
Anche se questi personaggi fossero veri, e il loro linguaggio fosse autentico, non per questo ne raccomanderei la divulgazione. Non tutto ciò che è artistico ha il diritto di circolare senza restrizioni. Non vogliamo mettere in ballo la morale, per non impantanarci nella vecchia questione dei rapporti tra arte e morale; parliamo invece più semplicemente di bienséance, di educazione, di buon gusto […]

Panfilo Gentile

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[…]
Dicono che queste parole sono esigenze del verismo, del neorealismo, della nuova scuola, che bisogna intenderla come cariche esplosive contro il conformismo di una società soddisfatta o bigotta, un tentativo di rinnovare un linguaggio frusto e ipocrita, di abbattere vecchi totem e tabù. E quale migliore occasione per insultare la borghesia, dopo averle fatto pagare il biglietto? Magari fosse così! Forse lo è stato all’origine, quando il pubblico fu chiamato a giudicare le prime opere in cui si diceva pane al pane e vino al vino, in dialoghi che esprimevano realmente il senso di rivolta e di dolore di una società appena uscita da una disfatta. Ma oggi le cose sono cambiate. Per un Sordi che nel film ‘La grande guerra’ lancia come un’arma, il suo “Ma va a morì…”, quante volgarità ci piovono addosso al solo scopo di provocare una risata anonima di un pubblico qualunquista, felice d’incanagliarsi al buio. Voi credete d’insultarlo, di dargli uno choc? E invece lo state servendo nei suoi più bassi istinti, carezzandolo per il verso del suo pelo. Per un Fellini che adopera una parola forte al posto giusto, quanti artigianelli da quattro soldi si sentono autorizzati a ripeterla solamente per strappare i consensi di una complicità volgare. […]

Gian Gaspare Napoletano

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[…] i crudi termini anatomici del dialetto o del gergo, quei vocaboli a cui si ricorre perché “bisogna chiamare le cose col loro vero nome”, quando le cose sono vicende e dialoghi e battibecchi di prostitute e di invertiti (la parola che li definisce, “pornografia”, risale al greco porné, “prostituta”); e infine quelle espressioni che sono pudicamente indicate col nome di coprolalìa (pudicamente, perché nessuno sa più il greco, ma l’etimologia del vocabolo è lalìa, discorso, e kòpros, escremento).
Credo che quei registi, che si crogiolano in questo lessico di bassa oscenità, non oserebbero mai servirsene se non incoraggiati dall’uso e dall’abuso che se ne fa nella più recente narrativa: senza rendersi conto che la parolaccia dallo schermo – sottolineata magari dal gesto di chi la pronuncia – davanti ad una platea di gente d’ogni classe e d’ogni età, offende assai più il sentimento della persona educata che non la parola stampata con l’apparire poco più di un documento filologico.
Voglio sperare che questi registi dalla parolaccia facile siano piuttosto mossi da una – vorrei dire – ingenua ricerca di scandalo per farsi pubblicità, e dalla speranza di un successo di cassetta, che affetti da una stortura morale (e così i giovani scrittori altrettanto sboccati), ché in questo caso il fenomeno sarebbe preoccupante. Ma se si tratti soltanto di una moda malintesa, è sperabile che passi presto per la stanchezza e l’irritazione che tale linguaggio suscita presso la maggior parte degli spettatori.
Nessuna missione sociale, nessun impulso di creare ciò che già nel secolo scorso si chiamava il documento umano (tranche de vie), nessuna aspirazione di aderire alla realtà giustifica un vocabolario che spesso è caratteristica di malati, di ossessionati, di degenerati: la coprolalìa, infatti, prima di essere il gusto di dir porcherie, è sinonimo morboso si una alterazione mentale.
I poeti napoletani della prima metà del secolo (Di Giacomo, Russo, Viviani, Libero Bovio), che della miseria, delle azioni dei guaglioni ‘e mala vita, dei camorristi, dei lazzaroni, delle donne di malaffare e dei loro protettori vollero dare con crudo realismo una rappresentazione “veristica”, non ebbero mai bisogno di “parolacce”; si servirono con larghezza, ma con senso di misura ed arte, di parole del gergo, triviali, plebee, ma non mai oscene e ripugnanti. E questo è bastato per rendere con fedeltà scrupolosa la realtà dei vicoli e dei bassifondi, e fare poesia alta e umana. E quando proprio la parolaccia gli scappava, o la bestemmia, la rarità di questo sfogo dava al verso quell’efficacia e quella forza d’arte che va del tutto perduta presso quei registi che tuffano le loro mani fino al gomito nel sacco e nella sporta delle immondezze.
[…]

Paolo Monelli

(10 marzo)

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